Il Cafè Society si trovava a Sheridan Square, al Greenwich Village di New York. Era uno dei pochi locali in cui i neri potevano sedere al fianco dei bianchi: c’erano intellettuali di sinistra, liberali e musicisti. Il proprietario, Barney Josephson, era un convinto sostenitore dell’integrazione razziale e grande amante del jazz.

In quel locale, tre volte a settimana si esibiva una giovane cantante di colore, dalla voce profonda e malinconica, dal passato difficile e dal carattere fiero. Sensuale e sfrontata, dura in pubblico e fragile come una foglia nella vita privata: stuprata a 11 anni, in cella per rissa, ex prostituta, tossicodipendente e tremendamente libera. Questa era Billie Holiday.

Al Cafè Society incontrò Abel Meeropol, autore di una canzone intitolata Strange Fruit. «Gli alberi del sud danno uno strano frutto, sangue sulle foglie e sangue sulle radici, un corpo nero dondola nella brezza del sud, strano frutto appeso agli alberi di pioppo». Meeropol era un ebreo-russo: poeta, scrittore, compositore e comunista. Scrisse quei versi dopo aver visto una fotografia del linciaggio di Thomas Shipp ed Abraham Smith, due neri delle piantagioni del Sud. Fu la prima significativa protesta in parole e musica, il primo lamento non tacito contro il razzismo ancora imperante nella società americana della prima metà del ‘900.

Billie decise di cantare quella canzone una sera del 1939: “Non c’era nemmeno un leggero applauso nell’aria all’inizio- avrebbe scritto nella sua autobiografia – poi solo una persona ha iniziato a battere nervosamente le mani e così tutti gli altri l’hanno seguito”. Non era più intrattenimento, ma una protesta. La sua interpretazione era talmente profonda da poter quasi vedere i corpi delle migliaia di persone uccise senza un motivo in tutti gli Usa, specialmente negli stati del Sud. Strange Fruit era l’ultima canzone nello spettacolo al Café Society. I camerieri smettevano di servire, le luci si spegnevano, tranne un faretto puntato sulla cantante, che teneva gli occhi chiusi durante l’esecuzione. Subito dopo, lasciava il palcoscenico. Non c’era bisogno di aggiungere altro.

La sua casa discografica, la Columbia Records, si rifiutò di incidere il pezzo: quando Billie lo seppe, decise di pubblicare la canzone con la Commodore Records, una piccola casa discografica ebrea di New York. Fu allora che l’Fbi iniziò a mettersi sulle sue tracce: le fu intimato esplicitamente di non eseguire più quella canzone in pubblico, o l’avrebbe pagata cara. Billie continuò a cantarla ovunque, persino negli stati del Sud: lo fece a Mobile, in Alabama, cuore del segregazionismo. La cacciarono via senza che potesse terminare lo spettacolo. Questa era Billie Holiday.

Il Federal Bureau of Investigation l’aveva messa nel mirino: con il pretesto del possesso di eroina, non si limitò ad arrestarla. Le rese la vita impossibile, le mise una spia alle calcagna di cui poi le si innamorò (Jimmy Carter) pur sapendo chi fosse. Le venne tolta la Cabaret Card, quindi non poteva più esibirsi nei locali della 52esima a New York. E ovunque andasse, venivano piazzati disturbatori tra il pubblico, in modo da rovinare le serate. Billie entrò in una spirale dalla quale non sarebbe più uscita, fino alla morte.

L’Fbi la piantonò nel letto del Metropolitan Hospital Centre fino al 17 luglio 1959, giorno della sua morte. Ma Billie non smise mai di cantare Strange Fruit, fino all’ultimo concerto. Quella canzone scosse la vita e la coscienza di migliaia di persone, molto prima delle lotte per i diritti civili degli anni ’60. Difficile trovare un pezzo più “rock”.

Billie era debole, sola e fragile, sfruttata da mariti e manager. Ma era libera. Una sera del 43’, in un locale di New York, Lady Day era al bancone di un bar a bere un drink. Le si accostarono dei marines, che dissero al barman: “Volevamo un drink, ma non sapevamo servissi anche negri”. Billie si girò, e infranse il suo bicchiere di vetro sulla faccia del soldato, facendola diventare una maschera di sangue. Questa era Billie Holiday.

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