Io che ero argento vivo, dottore
Io così agitato, così sbagliato
Con così poca attenzione
Ma mi avete curato
E adesso mi resta solo il rancore

A due settimane dalla conclusione della 69esima edizione del Festival di Sanremo, si può tranquillamente affermare che il post è stato per lo più riservato a polemiche con non poche sfaccettature politico/culturali ai danni della musica vera e propria. Ma nella settimana in cui Argentovivo, il brano con cui Daniele Silvestri, Rancore e Manuel Agnelli si sono aggiudicati tre premi (il Premio della Critica Mia Martini, il Premio della Sala Stampa “Lucio Dalla” e il Premio Sergio Bardotti per il miglior testo) si appresta a raggiungere i due milioni di views su Youtube, ci sentiamo ancora in tempo e in dovere di soffermarci sul profondo significato di questo piccolo capolavoro.

Partiamo col dire che gli artisti coinvolti si amalgamano alla perfezione, dando vita a 5 minuti di pura passione. Una canzone che (sempre più raramente) ha fatto veramente lavorare l’orchestra del festival e l’ha messa in sintonia perfetta con uno strumento insolito: la batteria (menzione d’onore immediata a Fabio Rondanini alla batteria e Enrico Gabrielli alla direzione d’orchestra). Suoni forti, che trasmettono angoscia, rabbia, tristezza, voglia di ribellione, lungo tutto quello che sembra essere un mai accaduto dialogo tra padre e figlio.

Perché la canzone è questo: un grido d’aiuto. Di sconfitta, forse. E proprio i due artisti principali, Silvestri e Rancore, vanno ad incarnare due ruoli distanti, che così bene vestono il loro modo di cantare e le loro figure. Prima quella genitoriale paterna, drammatica, da cui Silvestri è partito per realizzare questa canzone (perché se è vero che Daniele canta “da ragazzo” è anche vero che i contrasti e le antitesi contenuti nella canzone muovono dall’incapacità del padre di comprendere a pieno i messaggi del figlio).

Silvestri lo confesserà dopo il festival: “Avevo bisogno di scrivere questa cosa”. Bisogno di parlare delle dinamiche genitoriali sempre più complesse. Per seconda la figura di un figlio che prende letteralmente parola con l’intervento del giovane rapper classe ’89: uno schiaffo in termini di ritmo, di concetti, di emozioni. Le tante parole sputate con velocità da Rancore si legano fra loro in una moltitudine di risultati. E il vero miracolo di questa canzone sta proprio qui. In una pluralità di livelli di significato, di realtà, di concetti. Una sovrapposizione multipla di messaggi che, incredibilmente, si adattano sempre alla perfezione alle parole.

Quando ho ascoltato Argentovivo la prima volta ho subito pensato alla tematica dell’iperattività. A un ragazzino incompreso, a una patologia che viene curata spegnendo l'”argento vivo” del ragazzo. La denuncia nei confronti di una società che tratta in maniera errata ciò che è diverso, annullandolo, facendolo bruciare e sgretolare brutalmente.

Ascolto dopo ascolto però il caleidoscopio di opzioni si allarga. Più in generale la canzone serve a far esplodere un grido di rabbia, di un ragazzo alienato davanti agli schermi (richiamando un’altra problematica e planando su un nuovo piano di lettura: quante volte sono gli stessi genitori ad usare smartphone e tablet come distrazione per i figli per mancanza di voglia o di tempo da dedicare loro?). “Un bambino distratto e normale”. La condizione di un giovane intrappolato che non percepisce casa come un rifugio (“come se casa non fosse una gabbia anche lei e la famiglia non fossero i domiciliari”). Un ragazzo angosciato, incompreso. Che solo nei sogni riesce a vedere un futuro. 16 anni, l’età del protagonista, che per lo stesso Rancore è speciale: a quell’età il giovane rapper fece uscire il suo primo disco.

Ma altri significati possono essere raggiunti guardando più da lontano e con una visuale più ampia: il dilemma degli ambienti odierni (casa, scuola, “resto del mondo”) incapaci di accogliere il diverso. E qui, sottolineiamolo, il diverso è ARGENTOVIVO. Sinonimo di un quid pluris. Una ricchezza sottintesa, costretta a restare sigillata. Soffocata, mi verrebbe da dire, anche in maniera piuttosto violenta e brutale. Una colpa che non esiste (“Nessun reato commesso là fuori, fui condannato ben prima di nascere”): essere diverso dalla massa. E la soluzione è l’isolamento. Non solo forzato dall’esterno, ma anche autoimposto (“E mi mantengo sedato per non sentire nessuno. Tengo la musica al massimo, e volo, che con la musica al massimo rimango solo”). Il rifugio per l’incomprensione sono delle cuffie e un volume che spacca i timpani. In una guerra dove il ragazzo esce sconfitto. “Io che ERO argentovivo”.

Il protagonista è obbligato a scontare una pena, rinchiuso costantemente, fra mura domestiche, scolastiche e all’interno di un una società che non è più adeguata ad insegnare nulla che possa realmente servire. Una società vetusta rispetto alla realtà. Ecco l’altro piano di lettura: una scuola non aggiornata, rimasta indietro, che non prepara a nulla per un domani.

Argento vivo è un pezzo fortissimo, cupo, contro cui si sbatte a forte velocità. E, con tutta probabilità, fa male. Questo però è il sintomo della vittoria degli autori. Perché questo pezzo è destinato ad entrare dentro e a lasciare qualcosa di importante. Una canzone tenebrosa, vero, ma che regala uno spettro di emozioni vastissimo e che pone l’accento su quello che forse è il male più grande dei giorni nostri: la mancanza di dialogo, l’incapacità di ascoltare.

Un animo nero, una denuncia sullo stato d’animo di tanti ragazzi. E, più di tutto, una storia vera, credibile. I tre artisti sono riusciti a colpire il bersaglio, uscendo dagli schemi e dalle banalità presentate troppo spesso al Festival. Una canzone non da Festival verrebbe da dire per quanto bella. Ma, in fondo, non possiamo che dire grazie a Silvestri, Rancore e Agnelli anche per questo.

Luca Feole (@imbranatooo)

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