“Cerco musicisti determinati ad andare oltre le attuali stagnanti forme musicali“. Firmato Stephen Richard Hackett, chitarrista 20enne: era uno dei tanti annunci pubblicati sulla rivista inglese Melody Maker. Questo in particolare comparve nell’estate del 1970, e faceva seguito ad un altro in cui un terzetto composto da Peter Gabriel, Tony Banks e Mike Rutheford, cercavano un batterista ed un chitarrista. I tre avevano già due dischi alle spalle, e ad agosto incontrarono per la prima volta il giovane Phil Collins, che entrò a far parte della band. Il 28 dicembre di quell’anno fu la volta di Hackett, che li vide suonare al Lyceum Theatre di Londra ed ascoltò Trespass, loro secondo album. La scintilla era scoccata, i Genesis entravano nella storia con la formazione che avrebbe dipinto una meravigliosa epoca del progressive-rock.
Steve era un figlio della middle-class britannica, quella che tutto sommato riusciva ad arrivare alla fine del mese nell’Inghilterra post-bellica. A dodici anni intraprese lo studio della chitarra da autodidatta, folgorato prima sulla via di Bach, poi su quella di Andrés Segovia e Paco de Lucia, infine dal revival del blues britannico anni ’60. Un background musicale composito, nel quale entravano a far parte influenze jazz e rock. Ben presto però si sarebbe scontrato con “l’ingombranza” scenica di Peter Gabriel ed il protagonismo di Banks e Rutheford, autori della maggior parte delle canzoni dei Genesis.
“Perché ho lasciato il gruppo nel 1977? Per avere maggiore autonomia – avrebbe poi detto Hackett in una intervista di qualche anno fa – e la possibilità di lavorare senza costrizioni. Ho lasciato i Genesis per avere la possibilità di sviluppare le mie idee”. La formazione classica e l’abilità tecnica e compositiva di Hackett (tra i pionieri dello sweep-picking) era già venuta fuori in tutta la sua maestria con Horizons, operistico preludio alla cavalcata di Supper’s Ready (da Foxtrot del 1972). Ma a lungo andare il chitarrista decise di conquistarsi il suo spazio, e l’unico modo per farlo era dire addio alla band. Non prima di aver lasciato il suo testamento in una gemma quasi nascosta, incastonata in Wind & Wuthering, disco nel 1976 in cui si sentì finalmente alla pari, come compositore, con gli altri membri del gruppo.
Un dolce intro di chitarra che riporta alla mente paesaggi autunnali, la melodia che si sviluppa lentamente e si annoda fino al verso centrale, per poi tornare a fluire calda e commovente prima di sfumare in lontananza. E’ il preludio ad un saluto, è la sigla di un viaggio appena concluso, è un amico che scompare dietro porte che non si riapriranno più. “Dark and grey, an English film, the Wednesday Play, we always watch the Queen on Christmas Day,,,Won’t you stay?”. Mai eseguita dal vivo dal gruppo (soltanto da Hackett come solista), mai inclusa in qualche compilation degli anni a venire. Il pezzo si intitolava Blood on the Rooftops: il capolavoro con cui Steve Hackett recitava un meraviglioso addio ai suoi compagni di viaggio.
Gennaro Acunzo