Prendete una cartina geografica qualsiasi, una di quelle sulle quali avete studiato a scuola, e trovate il parallelo numero quarantuno. Scorrendo il dito, noterete l’unione di due puntini rossi: Napoli e New York. Ed è proprio tra la città della sirena Partenope e la Grande Mela che si sviluppa la vita di Piero Armenti, passando anche per la Spagna e il Sud America. È a pochi passi da Times Square, precisamente al 324 W 47th, che ha fondato la sua agenzia “Il mio viaggio a New York”.

Trovare una definizione adatta a lui è difficile, ma ci affidiamo ad una parola prettamente americana: Urban Explorer. Sì, perché tramite i suoi canali social, Piero Armenti porta tutti alla scoperta di ogni singolo angolo della città. Un racconto vero, sincero, umano, che supera i confini del Travel Blogging per diventare un racconto di vita.

Il mio viaggio a New York” ha assunto un forte carattere emotivo, diventando uno storytelling dedicato al travel, in grado di mostrare la Grande Mela esattamente così com’è. Come nasce l’idea di questo progetto? Quanto è importante al giorno d’oggi puntare sulla componente emotiva nella produzione di un contenuto destinato al web?

Il progetto nasce dalla mia passione per il racconto, e dal mio amore sconfinato per New York, una città che ama essere raccontata, e che desta grande curiosità. Io non credo che il mio sia uno storytelling emotivo, lavoro più per suggestioni, ritraggo una New York in equilibrio sulla fine del mondo, dove ogni immagine richiama alla memoria qualche scena cinematografica.

Alla fine però non si tratta solo di New York, si tratta di me: racconto la mia vita che è per molti diventata l’incarnazione del sogno americano, dell’uomo che da solo combatte contro il destino per emergere, e alla fine ce la fa.

Sono felice che siano in tanti a scrivere e a dirmi che sono una fonte di ispirazione. Per quanto riguarda i contenuti per il web, io penso che ogni contenuto debba essere un grande atto di umilità, dobbiamo saper ascoltare quali sono i desideri, le paure, e i sogni della gente, e lavorare su questo per trasmettere entusiasmo.


Lei ha vissuto in Spagna, durante l’Erasmus, poi in Sud America per quattro anni, prima del trasferimento a New York. C’è un momento in particolare dei suoi primi giorni nella città che le andrebbe di raccontarci?

Piero Armenti Il mio viaggio a New YorkKafka diceva che le prime giornate di un europeo in America possono essere paragonate alla nascita di un uomo. Sono convinto che questa sensazione di potersi rifare una vita cominciando da zero sia una delle più belle cose che si possano provare.

Le mie prime giornate in America sono stato esattamente questo: ogni passo, ogni sguardo, ogni parola erano quelle di un neonato, di un nato daccapo; sentivo in me il rinnovamento inteso anche come ottimismo verso le nuove possibilità che l’America mi avrebbe offerto.

Si ricomincia da zero, e c’è in questo tutto il bello della vita.

Lei è campano, ha mai pensato o le piacerebbe in futuro fare per la sua terra qualcosa di simile al progetto “Il mio viaggio a New York”?

Ci sto già lavorando, perché è una riflessione che faccio da tanto tempo. La Campania è una terra con un potenziale di racconto turistico enorme, secondo me da questo punto di vista la prima regione d’Italia.

Pompei ed Ercolano sono di un fascino unico riconosciuto in tutto il mondo, Capri, Sorrento, Positano e tutta la costa sono associate alla bellezza della vita e al glamour; Napoli ha una forza impareggiabile, paesaggi incantevoli, e poi è nata qui la pizza che è la cosa più mangiata al mondo.

Ci sono percorsi culinari che farebbero gola a tutti, si pensi alla mozzarella di Battipaglia o Aversa, terre inesplorate e incantate nel Cilento dove davvero puoi andare in sella ad un asino, le luci di Natale di Salerno ti trasportano direttamente nella favola, i templi di Paestum, la Certosa di Padula, la Reggia di Caserta,  Caserta Vecchia,  e la lista potrebbe continuare. Stiamo parlando di una terra con un potenziale impressionante.

C’è un film, una serie tv o un romanzo (o tutti e tre) che, secondo lei, rappresentano al meglio la vera anima di New York?

Rimango legato al giovane Holden di Salinger, perché rappresenta in maniera perfetta una sensazione che anche io ho provato. La storia di quest’adolescente difficile, che va a New York e si prende Il mio viaggio a New Yorkdel tempo per se, è bellissima.

Si gode New York smarrito e sorpreso da tanta bellezza, e si fa quell’unica domanda che tutti ci facciamo. Cosa sarà di me e della mia vita? E questa città piano piano, poco a poco, ti risponde. Io stesso, come Holden, mi sono sentito così, smarrito a 31 anni in questa metropoli senza aver concluso nulla della mia vita, qui poi  sono rinato.

Il futuro della specie umana è nelle città: è un dato scientifico che nei prossimi decenni la maggior parte della popolazione mondiale vivrà in enormi megalopoli. New York è alla testa di questa lista di grandi città, se non precisamente per numero, sicuramente per fama. Cosa pensa Piero Armenti di questo processo? Ritiene che vada contrastato o appoggiato?

Il formarsi delle megalopoli è stata una delle grandi trasformazioni della fine del ‘900, ed è un processo che impone grandi sfide alla politica del territorio. Paradossalmente New York non è neanche tra le più abitate, e riesce a gestire bene i flussi di arrivo, in tanti cercano qui un’occasione di vita. Io ho vissuto a Caracas, ho visitato Rio, San Paolo, lì ho visto megalopoli vere intese come città che vivono un perenne squilibrio, dove il contrasto tra ricchezza e povertà appare insopportabile e ingestibile.

New York invece funziona bene, in fondo poi la gran parte di New York è formata da zone residenziali: palazzine da uno massimo due piani, case con giardino. E’ una città vivibile. Solo Manhattan dà questa idea di “catastrofe”, Le Corbusier definiva Manhattan appunto così: “Una bellissima catastrofe”.

Questo processo di urbanizzazione non va né contrastato né appoggiato, bisogna provare a governarlo senza dimenticarsi che l’errore più grande per New York sarebbe chiudere le frontiere. Questa è una città fatta da migranti per i migranti e tale deve restare, altrimenti perde la sua bellezza.

New York è la città di tutte le possibilità, ma è anche il palcoscenico di infinite storie con infiniti scenari. Quanto è stato importante, per lei in quanto giornalista, questo aspetto della Grande Mela? Crede che il giornalismo che si fa a New York sia un giornalismo diverso, più capace e innovativo, rispetto a quello praticato invece in Italia?

New York è una città americana, non esiste una differenza tra alta cultura e cultura popolare, quindi il giornalismo di qua copre tutto ciò che accade a New York con lo stesso entusiasmo, senza puzza sotto al naso. 

I musei di New York, tra cui il MoMA, sono stati tra i primi al mondo a creare serate da discoteca al loro interno, con tanto di DJ per attirare i più giovani. Fare giornalismo a New York è bellissimo perché questa città offre tanti spunti, e la gente ha una forte curiosità verso New York.

Senza contare che notoriamente la cronaca nera si è formata nelle metropoli, e New York è stata una grande scuola di giornalismo in questo senso. Quindi sì penso che fare giornalismo a New York sia avvincente, forse più che in Italia dove manca un laboratorio sperimentale come New York.

New York è il grande sogno di tanti giovani, molti italiani, che vedono in questa città una possibilità di riscatto e di auto affermazione. Quanto c’è di vero in quest’immaginario? New York davvero offre a tutti una possibilità? Cosa consiglierebbe Piero Armenti a un giovane che volesse lanciarsi e vivere l’avventura nella Grande Mela?

Questa è la domanda a cui devo rispondere quasi ogni giorno. La mia risposta è sempre la stessa: l’America è l’America, e per un europeo questo significa che avrai sempre una chance per emergere, per fare qualcosa d’importante. Non significa che tutti ce la fanno, anzi in tanti non ce la fanno, e spesso tornano in Italia. Ma un periodo qui, anche breve, è un’occasione di crescita umana e professionale che non ha eguali. Purtroppo se dite in giro che volete andare in America, in molti vi scoraggeranno. Ma come ti ho detto rispondendo alla prima domanda: l’uomo deve emergere contro tutto e tutti, questa è la vera epopea americana.

Intervista a cura di Corrado Parlati e Martina Toppi

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