MentiSommerse, con questa riflessione sul futuro del giornalismo online, inaugura la sezione “Mondo”: uno spazio per idee e storie che vale la pena conoscere. Un punto dove fermarsi per riflettere e cercare di capire dove stiamo andando.
Le fake news uccidono.
Qualunque sia il vostro orientamento politico dovete avere seriamente paura delle notizie false. Anche quelle che vi sembrano “innocue” si trascinano dietro il peso di una possibile catastrofe.
Ogni crepa nel muro della credibilità del giornalismo è un terremoto che scuote le fondamenta della democrazia e della libertà di parola.
Negli ultimi mesi in India sono circolati messaggi e video su WhatsApp riguardanti rapimenti di minori da parte di personaggi generalmente avvertiti come “estranei” alla comunità.
Attenzione, non necessariamente stranieri.
Un estratto di questo articolo di Rivista Studio restituisce molto bene la gravità e l’assurdità del fenomeno:
Nell’Assam, uno Stato nord-orientale che confina col Bhutan, lo scorso otto giugno due ragazzi sono stati linciati dalla folla inferocita, convinta che fossero dei rapitori di bambini. I due in realtà stavano viaggiando insieme in macchina, quando si sono persi nei pressi di un villaggio in una zona rurale e hanno provato a chiedere indicazioni: dato che si trattava di persone “diverse” (i due giovani venivano da una grande città e appartenevano all classe media), sono stati immediatamente identificati come i molestatori di bambini di cui si vociferava su WhatsApp. La polizia ha arrestato almeno sedici persone coinvolte nell’omicidio.
Guardate questo video.
Manipolare delle immagini per farle sembrare altro è un’operazione che richiede pochi minuti: è facile anche per un bambino di 10 anni.
Considerando l’importanza che siamo soliti dare a video e foto siamo davvero di fronte a un pericolo enorme.
So cosa state pensando.
Mi dispiace smentirvi, ma non sono cose dell’altro mondo. L’Italia è un Paese particolarmente sensibile a rischi del genere:
- analfabetismo informatico;
- digital divide;
- esposizione alle notizie false.
Sono tutti veleni che rischiano di mandare in frantumi la stabilità del nostro assetto sociale. Basta pensare l’82% degli italiani non sa distinguere una notizia vera da una fake news.
Le bufale possono pure farvi sorridere, ma intanto stanno inquinando il dialogo pubblico e, di conseguenza, la stessa democrazia – che, si ricordi, è fondata sulla discussione, non sulla “vittoria”.
Esiste una soluzione? Probabilmente no, almeno nell’immediato.
Tuttavia possiamo provare a ragionare su cos’è il giornalismo oggi e su cosa potrebbe essere da qui a qualche anno.
⚠️ Attenzione: sarà un post abbastanza lungo. Si tratta di un tema delicato, complicato, che coinvolge campi diversi e apparentemente lontani tra di loro. Ma è necessario ridare civiltà anche alla complessità, da coniugare con i diversi tempi del web.
Se volete leggerlo più comodamente, qui c’è la versione in PDF e qui in EPUB.
Come sta il giornalismo?
Risposta breve: non molto bene.
Una serie di eventi rivoluzionari si è condensata nello spazio di pochi anni:
- Internet;
- declino dei giornali di carta;
- crisi economica;
- boom del web 2.0;
- esplosione dei social media;
- crisi della pubblicità online.
Il paradosso ha voluto che i tradizionali protagonisti (e mediatori) della comunicazione sociale abbiano perso spazio in un mondo sempre più in comunicazione.
Siamo nel bel mezzo della rivoluzione digitale, che è decisamente lontana dall’essere conclusa. Solo quando sarà definitivamente passata alla Storia ci renderemo conto della portata dei cambiamenti che stiamo vivendo.
L’epoca del giornale da comprare in edicola è ormai finita. Gli editori se ne sono accorti tardi o, semplicemente, sono stati “travolti”: prima hanno cercato di tamponare la crisi, ma ora è diventata chiara emorragia.
🔥Quel rituale nascondeva, in fondo, una rassicurazione: “Puoi fidarti, leggi questo giornale per sapere cosa accade nel mondo di rilevante”.
Il venir meno di quel filtro, fondamentale per muoversi nel marasma di eventi che succedono ovunque, ha creato un’ondata di confusione che ha travolto le istituzioni giornalistiche.
Comprare un giornale, inoltre, significa(va) dare fiducia e sentire un senso di appartenenza a quella specifica narrazione del mondo.
Nel cercare di adattarsi ai nuovi schemi imposti dal web, invece, i giornali online e i giornalisti hanno fatto diversi errori.
Inizialmente si pensava di poter sopperire alle mancate vendite dei quotidiani cartacei con la pubblicità su Internet: un mito caduto molto presto.
Tanto presto che ormai già da qualche anno la domanda che serpeggia tra gli addetti ai lavori è principalmente una:
Il giornalismo online è sostenibile?
Quando si parla di giornalismo online si fa spesso riferimento al fatto che una democrazia è tale solo se è correttamente informata.
Il richiamo è a una citazione di Joseph Pulitzer, il giornalista che dà il nome al premio:
“Un’opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema. Perché ad essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare o gli errori del governo; una stampa onesta è lo strumento efficace di un simile appello”.
La differenza sostanziale con le istituzioni pubbliche è che il giornalismo è retto da società private e, in quanto tale, deve produrre utili per potersi sostenere.
Oggi è chiaro che ciò non avviene quasi più.
Prima di continuare, va contestualizzato il ruolo dei giornali nell’ecosistema di Internet, dove devono convivere con:
- social media;
- aggregatori di news;
- blog;
- reti all-news;
- una miriade di piccoli giornali.
🔥In poche parole, il primato della notizia è scivolato dalle mani dei giornali tradizionali per frammentarsi in tanti piccoli pezzi.
Ormai capita sempre più spesso che la notizia, il fatto crudo, diventi di dominio pubblico grazie a un post su Facebook oppure su Twitter. In futuro questa sarà la normalità, visto il grado di invasività al quale puntano le società digital.
Parlando il linguaggio del business, si potrebbe dire che la notizia non è più il prodotto principale dei quotidiani.
Ma, allora, i giornali non hanno più senso?
In realtà hanno più senso oggi che ieri.
Il mondo globalizzato procede a passo spedito verso l’eccellenza. La mediocrità sarà sempre più un disvalore.
Formarsi un’opinione corretta, plurale e profonda diventerà l’unica bussola per districarsi nella giungla che ci stiamo costruendo intorno.
Semplicemente, i giornali devono cambiare (in fretta) il loro funzionamento.
Mark Thompson, il CEO del New York Times, ha detto che la carta stampata, probabilmente, ha altri 10 anni di vita. Tant’è vero che lo stesso NYT sta studiando metodi innovativi per raddoppiare i ricavi digitali entro il 2020 (attualmente si attestano intorno ai 400 milioni di dollari).
Attualmente gli abbonamenti digitali sono la principale fonte di ricavi per il giornale newyorkese, che per il futuro ha un obiettivo chiaro: puntare sulla qualità.
E no, non è solo un generico modo di dire.
Il modello del New York Times
Si riassume in poche parole: “Journalism That Stands Apart“, “giornalismo che si distingua”.
Il titolo del report scritto dal gruppo 2020, un team di 7 giornalisti che il NYT ha scelto per ragionare sul futuro del giornale, è un manifesto chiaro e potente.
🔥 In sintesi, secondo questo report, si dedica troppo tempo “storie che vengono lette relativamente da poche persone”.
Il riferimento è a tutte quelle notizie di attualità che si possono trovare online, gratis e pure in tempo reale.
Come scrive Erik Wemple sul Washington Post, l’obiettivo del New York Times è realizzare “contenuti ad alto impatto e meno articoli che non siano in grado di distinguersi dal mucchio” (traduzione de IlPost).
Pensateci,
vale davvero la pena investire tanto tempo per scrivere un articolo che, in fondo, non aggiunge niente a quello che si sa?
Un altro giornalista del Washington Post, David A. Fahrenthold, che ha investigato per oltre anno sulla fondazione di Donald Trump, ha sottolineato a riguardo:
“Twitter, per esempio, mi ha dato uno strumento per aggiornare velocemente i lettori sulla mia ricerca delle donazioni benefiche di Trump, e risparmiare del tempo che ho potuto dedicare a storie più grandi”.
Ecco, sono le “storie più grandi” quelle a cui deve guardare il giornalismo moderno, che, più del passato, ha il compito di spiegare, mettere insieme pezzi diversi e dare un senso a una realtà multiforme.
Chi è un giornalista, oggi
La risposta ormai scontata è che “tutti sono giornalisti”.
Sì, in parte è vero: chiunque ha i mezzi a disposizione per fare informazione.
Tutto sommato basta una connessione a internet e un cellulare. D’altronde, l’abbassamento della soglia per diventare editori ha prodotto una sorta di bolla in questo mercato.
Aprire un giornale online è abbasta semplice. E per questo editori, meno o (spesso) più avventati, si sono lanciati nell’impresa.
La conseguenza (altrettanto scontata) è stata la crisi del mercato pubblicitario, che ovviamente non può sostenere una platea tanto vasta.
🔥Un altro paradosso, insomma, è che l’ipotetica maggiore pluralità dell’informazione sta accompagnando il giornalismo tradizionale verso la morte.
Servirebbe la consapevolezza dei tanti micro-editori che non c’è spazio per tutti, almeno non nello stesso luogo. Ma ci torneremo dopo.
Tuttavia, in questo scenario abbastanza cupo, abbiamo più che mai bisogno di giornalisti preparati, competenti, in grado di leggere il mondo di questo millennio.
No, non tutti sono giornalisti
Uno smartphone non fa un giornalista, così come una penna non fa uno scrittore e il Piccolo Chimico non fa uno scienziato.
Qualche tempo fa leggevo su Facebook un post molto interessante sulla situazione attuale dei giornalisti, specialmente in Italia.
🔥In estrema sintesi, l’autore (di cui purtroppo non ricordo il nome) diceva, giustamente, che le abilità richieste a un giornalista “moderno” sono nettamente maggiori rispetto al passato.
In effetti, è così. Oggi chi vuole fare questo mestiere deve:
- conoscere i principi del giornalismo;
- scrivere bene;
- saper registrare video;
- scattare foto;
- capire i meccanismi di base dei social media;
- comprendere il linguaggio della rete;
- essere padrone dei necessari strumenti tecnologici.
E l’elenco è sicuramente incompleto.
Il sottinteso velato di un ragionamento simile è che in futuro ci saranno meno giornalisti, ma quelli che ci saranno sapranno fare cose migliori.
Una delle più grandi sfide del futuro è la robotizzazione del lavoro: anche il giornalismo, ovviamente, godrà dei suoi benefici e ne soffrirà i danni.
Cosa NON farà più un giornalista
Risposta breve, di nuovo: non farà più le solite cose noiose che fanno tanti giornalisti, al momento.
Abbiamo parlato dei danni dei robot (meno posti di lavoro), ma il vantaggio principale è che ci sarà molto più tempo per dedicasi ai “contenuti ad alto impatto” di cui parlavamo poco fa.
Il robot giornalista presto potrebbe essere una realtà: al Washington Post, per esempio, Heliograf ha scritto 850 pezzi nel 2017.
🔥Alle macchine sarà affidato il lavoro che, nel gergo, è detto di “desk”, ovvero la copertura delle notizie dell’ultim’ora. I classici articoli delle 5W, che informano circa un fatto appena avvenuto.
Ai giornalisti sarà tolto l’affanno della corsa alla pubblicazione: tempo da dedicare all’approfondimento e alla spiegazione.
Chi sarà il giornalista, nel futuro (non tanto remoto)
Tradizionalmente i giornali sono considerati, almeno a livello popolare, delle entità astratte.
La crisi mondiale di fiducia nei media ha le sue radici proprio in questa percezione, che sembra nascondere invece di mostrare.
C’è tanto in comune tra la crisi dei giornali e quella della politica tradizionale: il M5S è arrivato al Governo proprio promettendo di “aprire le istituzioni alla gente”.
🔥Il futuro del giornalismo passa (anche) da giornalisti che abbiano un forte personal brand.
Giornalisti che sappiano radunare delle persone interessate a un determinato argomento intorno a sé e diventare un punto di riferimento per quelle persone.
Questa società della sfiducia può essere superata rafforzando le relazioni tra le persone e abbattendo le barriere delle grandi istituzioni.
Sembrerà assurdo, ma tutti i giornalisti hanno da imparare dalla comunicazione di Matteo Salvini.
Il segretario della Lega Nord, più del Movimento 5 Stelle, è un caso esemplare di come riuscire a far rivalutare una figura fortemente discreditata, il politico, nell’era moderna.
L’ipotetico giornalista di domani deve sapersi costruire un’identità chiara, che permetta ai lettori di distinguerlo dagli altri e instaurare con lui una rapporto di fiducia.
Deve essere in grado di mettersi al livello di chi lo segue – anche parlando un linguaggio comprensibile ai più, senza forzare la parola a effetto – per combattere il dilagante antielitismo.
A tale scopo, ovviamente, è fondamentale il ruolo dei social media, che attualmente sono la patria prediletta delle fake news.
Il sempre ipotetico giornalista futuro deve capire che quello è spazio vitale da occupare, pur magari rinunciando al “prestigio” della firma in prima sul Corriere della Sera o La Repubblica.
L’amore tossico tra social e giornali
Il rapporto tra Facebook, Twitter, Instagram e il mondo del giornalismo online è un interessantissimo caso di relazione complicata.
Da una parte, il giornalismo sopravvive, molto a stento, grazie al traffico che i social media garantiscono.
Ma interessante a proposito è la posizione del direttore del Wall Street Journal, Gerard Baker:
Dall’altra parte, in pratica, si tratta di un amore tossico: il modello social-dipendente è appeso al labile filo delle decisioni della Silicon Valley.
Per questo motivo un aggiornamento dell’algoritmo di Facebook o Instagram provoca grosse crisi isteriche nelle redazioni di mezzo mondo. Ne è un chiaro esempio l’esplosione dei video, su ordine del Grande Frat… uhm, Mark Zuckerberg.
Così si entra in un pericoloso circolo vizioso: il lettore passa in secondo piano, a favore degli interessi dello Zuckerberg di turno (quasi sempre il turno è il suo, c’è da dire).
La conseguenza più immediata è che diventa impossibile costruire le specificità di un giornale, che corre dietro la viralità perdendo di vista i contenuti utili a definire la sua visione del mondo.
🔥Provate a fare un esperimento: chiedete a un ragazzo qualunque oppure a una persona che non legge i giornali di carta (dovrebbe essere semplice) se nota differenze sostanziali tra il Corriere e Repubblica.
Scommettiamo che la risposta più gettonata sarà “no”?
In effetti, visitando i siti web e le pagine social delle due testate più importanti d’Italia, difficilmente troverete qualcosa che sia realmente “diverso”.
Ecco perché i giornali dovrebbero cominciare a riflettere su loro stessi invece che impazzire per inseguire i social.
Occhio, i social network non sono il male assoluto: questa è una folle tesi che, di tanto in tanto, serpeggia (sintetizzando) in alcuni ambienti culturali.
In realtà sono un mezzo rivoluzionario che ha cambiato il modo in cui gli uomini si rapportano tra di loro. Snobbarli vorrebbe dire condannarsi al silenzio.
E poi…
Siamo sicuri che le fake news siano un problema di Internet?
Dire che le bufale sono nate con Internet è una notizia falsa.
La verità è che Internet ha reso più semplice fare ricerche approfondite, confrontare più fonti, contattare direttamente personaggi coinvolti in determinate storie.
🔥Ma le bufale sono sempre esistite: come spiega quest’articolo di Focus, per esempio, la storia della Shoah inizia proprio con una fake news (i Protocolli dei Savi di Sion, un falso documento cospirazionista).
Internet, più che causa del problema, è lo specchio che ci ha sbattuto in faccia tanti chili di troppo – quando pensavamo di essere perfettamente in forma.
Tristan Harris, ex dipendente (pentito?) di Google, ha recentemente fatto scalpore spiegando come le aziende tech sfruttano alcune “falle” della mente umana per creare dipendenza.
Il video del TEDTalk di Harris, disponibili i sottotitoli in italiano.
Oltre a essere decisamente interessante, lo speech di Harris ci aiuta a capire un concetto ben chiaro agli esperti di marketing, che modellano gusti, acquisti e, ormai, pensieri.
🔥L’uomo, per quanto essere razionale, agisce spesso d’istinto, secondo logiche che risiedono in luoghi della mente sconosciuti ai più.
È un punto di partenza necessario per rispondere a una domanda molto complessa:
Perché crediamo alla notizie false?
Le elezioni americane del 2016 sono passate alla storia per il dibattito sulle fake news che le ha accompagnate.
Una delle storie che fece più scalpore fu quella dei presunti brogli elettorali di Hilary Clinton. Ovviamente una bufala, ma che fece fare un sacco di soldi all’autore, gestore di un piccolo sito (Christian Times Newspaper).
Senza scendere troppo nei dettagli (potete leggere l’intera storia qui) l’articolo sosteneva che fossero state ritrovate delle schede elettorali già compilate a favore di Clinton. Non era vero, ma Trump, allora sfavorito nei sondaggi, andava ripetendo che le elezioni fossero truccate (sic).
🔥Quella bufala attecchì proprio perché confermava quell’opinione diffusa tra i conservatori americani.
Alcuni studi scientifici sostengono che le persone “di destra” tendono a credere maggiormente alle fake news, soprattutto per via della loro visione del mondo e della loro sensibilità riguardo certe tematiche (aborto, matrimonio gay…).
Uno dei principali cardini del pensiero di destra è la necessità di sicurezza contro il nemico di turno, non sempre identificato e identificabile. Questa fake news su Clinton sfrutta alla perfezione questo elemento, come tante altre che girano sul web.
🔥Tuttavia sarebbe illusorio credere che le bufale siano esclusivamente un problema di un certo tipo di elettorato.
Esistono delle notizie false “trasversali” (per esempio, quella secondo cui correre a stomaco vuoto faccia bruciare più calorie), che sono ritenute vere sia a destra che a sinistra, così come vengono prodotte fake news anche a sinistra (magari riscontrando meno diffusione).
Ora, prima di continuare dobbiamo fare un piccolo riassunto.
Come ci rapportiamo al mondo, in poche parole
Ciascuno di noi cerca di dare un senso al proprio mondo creando delle storie, che spesso distorcono la realtà in base a determinate convinzioni. (In fondo, un credo politico è una narrazione del mondo condivisa a livello sociale). Questo meccanismo si auto-alimenta con la ricerca di fatti che confermino queste convinzioni. I “fatti” non devono essere per forza reali: l’importante è che tornino utili alla nostra narrazione. In psicologia questo fenomeno è conosciuto come bias di conferma. In altre parole, si tratta di un pregiudizio primordiale che condiziona tutta la nostra visione.
I giornali, che in ogni caso sono portatori di una particolare visione del mondo, sfruttano da sempre tali meccanismi.
Attenzione, non c’è niente di “complottista” nell’affermare ciò.
🔥La scelta delle notizie è in sé una forma di narrazione, che perciò risponde a determinati valori: su un quotidiano di sinistra si darà più risalto a determinati fatti, su uno di destra ad altri. Almeno, dovrebbe essere così, anche per il discorso della creazione di un’identità del giornale chiara e forte.
I social media, invece, rifiutando il ruolo di editori – che hanno, in quanto selezionatori di notizie, seppur tramite algoritmi – hanno amplificato al massimo gli effetti negativi del bias di conferma.
Il motivo?
Siamo tutti in una bolla (di filtraggio)
Premessa: il business dei social network dipende dalla quantità di tempo spesa dagli utenti sulle piattaforme. Più tempo restano gli utenti sui social, più i social guadagnano.
Per trattenere le persone più a lungo vengono usati diversi strumenti per personalizzare al massimo l’esperienza utente.
Sono strumenti potentissimi, anche perché estremamente semplici: un esempio sono i like di Facebook. Sapevate che, analizzandone appena 150, un computer può determinare i tratti della personalità di una persona meglio di un familiare?
Tuttavia questi meccanismi portano alla creazione di quella che Eli Parisier ha definito “bolla di filtraggio“.
Parisier parla della “bolla di filtraggio”: un concetto fondamentale per il giornalismo online
🔥 In sintesi, i sistemi di profilazione determinano i risultati delle ricerche che facciamo sui motori di ricerca e i contenuti che vediamo sui social network.
Da una parte, in questo modo vediamo solo cose che, in teoria, ci dovrebbero interessare. Dall’altra, però, restiamo chiusi nel perimetro delle nostre opinioni personali.
Questo significa alcune cose:
- Perdiamo la capacità di confrontarci. Rimaniamo sempre nel gregge di chi la pensa come noi. Quando ci troviamo tra persone che hanno un pensiero diverso andiamo in difficoltà e, spesso, nascono situazioni disgustose.
- Non riusciamo a costruirci una visione del mondo equilibrata. Proprio perché non ci confrontiamo più, o comunque ci confrontiamo di meno con visioni opposte alla nostra, manteniamo vivi gli spigoli delle nostre idee. Non smussiamo le asperità, non cerchiamo un punto d’incontro ragionevole.
- Alimentiamo le nostre convinzioni, anche sbagliate. Le notizie false rimbalzano più facilmente in determinate “bolle”, dove non trovano spazio smentite e ricostruzioni alternative. It’s confirmation bias, baby.
Sull’educazione dei lettori, diventare rompibolle
Queste parole di Elliot Schrage, vice-presidente per la public policy di Facebook, aiutano a inquadrare bene la portata di un fenomeno, in un primo momento minimizzato da Mark Zuckerberg.
Le riflessioni che vengono al momento sono principalmente:
- I social media devono riconoscere il proprio ruolo di editori, visto che i loro algoritmi operano una selezione di news.
- In quanto editori devono assumere persone che siano in grado di gestire situazioni critiche (per esempio, questa).
Ma tutto questo potrebbe non bastare se non si formasse una nuova generazione di lettori consapevoli.
Bisogna stimolare un modo di pensare critico che sia adatto a ogni canale di comunicazione, presente e soprattuto futuro.
Il giornalismo ha speranza se chi legge acquisisce le capacità di analisi utili a distinguere una notizia falsa dalla satira e, ancora, da una notizia affidabile.
Claudio Lagomarsini, professore di Filologia romanza, in un articolo sul rapporto tra filologia e fake news, sottolinea giustamente che “se manca una cultura dei testi, tutti i testi sono uguali”.
E allora, che si fa?
Si smetta di aspettare l’avvento di un miracolo. I gestori dei social hanno scarsi interessi a modificare il loro funzionamento: semplicemente, guadagnano tanto così.
Si deve ricominciare dalle scuole:
- tornare a leggere i giornali (online) in classe;
- spiegare i meccanismi dei social;
- analizzare bufale e articoli satirici.
In un Paese come il nostro con una cultura digitale praticamente nulla sarebbe un atto davvero rivoluzionario.
Ma, quindi, come sta il giornalismo in Italia?
Ennesima risposta breve: malaccio, peggio di tanti altri posti del mondo.
Leggete questi titoli, uno dopo l’altro:
- Incubo vaccino in Veneto, altri due morti;
- Caso vaccini, si indaga su due decessi;
- Vaccino, terza morte sospetta;
- Vaccini anti-influenza: 11 le morti sospette, anche anziana a Lecce;
- Iniezione letale, terrore per il vaccino antinfluenzale: salgono a 11 le morti sospette, 2 a Roma;
- Vaccini: 11 morti, zero certezze;
- Altri morti, è panico per il vaccino;
- Altri morti, psicosi vaccino;
- Scoppia la psicosi-vaccino. Sono undici le morti sospette;
- Morti sospette, alt ai vaccini.
Rivelazione: non sono titoli presi da siti no-vax.
🇮🇹Sono alcuni titoli di alcuni quotidiani italiani tra il 28 novembre e il 3 dicembre 2014.
Ovviamente il 4 dicembre – guarda tu, il tempismo – la bufala si è sgonfiata. Eppure la smentita, come ha notato Luca Sofri sul suo blog, è apparsa su appena 2 quotidiani (ripeto, quelli di sopra sono solo alcuni dei titoli di quei giorni).
Ricordate, la storia falsa dei pedofili in India? Ecco, era questo che s’intendeva con “l’Italia è un Paese particolarmente sensibile a rischi del genere”.
🔥La battaglia della velocità, combattuta su più fronti online, ha una sicura vittima: il buon giornalismo.
Si dovrebbe smettere di pensare alle notizie in termini di click, likes e viralità: tutte le notizie vanno verificate. In fondo basta quello per non scrivere che un gatto ha ereditato un milione di euro – sì, è capitato, in Italia: a maggio 2018.
La verità è una.
Il sensazionalismo nuoce a te e a chi ti sta intorno
E il giornalismo italiano ne è altamente dipendente.
“Bufera”, “tempesta”, “caos”, “psicosi”, “terrore” sono alcune delle parole che tornano più spesso in titoli che ormai sono una continua ricerca dell’effetto wow.
Il clickbaiting, almeno in Italia, è stata la naturale prosecuzione di un fenomeno già vivo sui giornali di carta.
Il vero dato drammatico è che le nostre opinioni sono plasmate dai titoli: quasi nessuno legge gli articoli per intero, e questo si sa, ma moltissimi si fermano al titolo.
Titoli fuorvianti o esagerati hanno effetti sulla qualità dell’informazione e della discussione pubblica.
Questa storia raccontata dal Secolo XIX è abbastanza chiara per simboleggiare un comportamento diffusissimo, praticamente un virus.
La cosa è andata così:


Lo screen del titolo dato dal Secolo XIX
Ishmal, cittadino marocchino residente in Italia, 38 anni, sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti alla moglie e ai figli. Il Secolo XIX ci scrive un articolo, lo pubblica su Facebook, ma nel titolo non c’è nessun riferimento alla nazionalità (in effetti, non è rilevante per la notizia). I commenti sono sul tono di “prima gli italiani”, finché qualcuno, addirittura 4 ore dopo la comparsa del link, nota che “nessuno ha letto l’articolo”. Qualcuno lo fa: “Guardate che è marocchino”, scrive. E l’attenzione per la notizia, d’un tratto, precipita.
Una singola parola nel titolo avrebbe cambiato sin da subito la percezione di quella notizia, a prescindere dal contenuto: la pagina sarebbe pure potuta essere bianca.
A questo proposito è interessante la lettura di questo articolo di (ancora) Luca Sofri. Ecco un estratto:
Ma, allora, in Italia non c’è alcuna speranza? No, c’è.
C’è spazio per il giornalismo online, fatto bene
Il 64% degli italiani non crede nell’imparzialità dell’informazione. Ma l’Edelman Trust Barometer, un’indagine annuale sulla fiducia e la credibilità nel mondo, nell’edizione del 2018 evidenzia dei fatti interessanti riguardo il nostro Paese.
Alla fortissima sfiducia verso il Governo, inteso come istituzione, fanno da contraltare:
- preoccupazione per le fake news: il 70% degli italiani pensa sia una minaccia;
- maggiore fiducia nel giornalismo tradizionale rispetto a motori di ricerca e social media.
Tuttavia, e su questo bisogna lavorare sul serio, il 67% degli intervistati ha affermato di non saper distinguere il giornalismo da rumors e fake news (+4% rispetto alla media globale).
Secondo il 65% del campione, inoltre, è difficile stabilire se una determinata notizia provenga da un media affidabile e autorevole (+6% rispetto alla media globale).
In sostanza, c’è una forte richiesta di giornalismo di qualità, che sappia spiegare le cose, contestualizzarle, presentarle con un linguaggio semplice e senza sensazionalismi.
Tutto ciò è un po’ quello che succede al Post, esempio di giornalismo online, una delle fonti che trovate citate più spesso in questo articolo – ma, c’è da dire, anche in altre realtà nate negli ultimi anni.
Questo pezzo di Rivista Studio racconta bene il metodo di lavoro del giornale di Luca Sofri. Un giornale, tra l’altro, che parla di giornalismo e di errori del giornalismo: una cosa poco semplice in Italia, assicurato.
Ora, se siete arrivati fino a questo punto: complimenti! 😁
Scherzi a parte, il futuro del giornalismo è un argomento ostico: lanciarsi in diagnosi certe e soluzioni è un esercizio azzardato. Eppure tentare di abbozzare qualche punto di discussione è necessario.
Ci proviamo?
Una modesta proposta per una nuova generazione di giornalisti
In uno stato di perenne confusione il giornalismo di qualità deve assumere il ruolo di guida: indicare i punti di riferimento nel mare aperto del web.
Ecco, per farlo deve riacquistare affidabilità: costruire identità forti, “umane”, che vadano oltre l’attuale concezione di quotidiano.
Gridare forte un “no” a tutti i trucchetti che distribuiscono briciole nel presente lasciando bruciare il pane del futuro in forno.
Nell’epoca dell’antielitismo buttare giù i muri imposti dai vecchi modelli comunicativi è un compito urgente di ciascun media.
Mostrare le facce che “fanno” l’informazione per combattere la serpeggiante sfiducia verso quelle che sono avvertite come istituzioni.
1 – Nuovi giornalisti, giovani giornalisti
L’età media dei giornalisti italiani è salita a 58 anni: un dato che fotografa bene lo stato del racconto della realtà nel nostro Paese.
Un mondo complesso, sempre più collegato, ha bisogno di una nuova generazione in grado di spiegarne le complessità: giornalisti – ma anche scrittori, registi, musicisti – che conoscano linguaggi e meccanismi di Internet.
Il giornalista moderno deve saper comunicare online in maniera efficace, parlando un linguaggio semplice, vicino a quello della gente.
Chi può raccontare deve abbandonare la torre d’avorio: immergersi nel mondo reale, per cercare di migliorarlo.
Pazienza se dovremo fare a meno di tanti articoli d’opinione su fatti stra-commentati strabordanti paroloni complicati.
È una missione complicata, specialmente in un mercato, quello italiano, dominato dalle firme vetuste attaccate a vecchi insensati privilegi.
Una generazione incapace di rispondere alle richieste della rivoluzione digitale dovrebbe lasciarsi affiancare da chi, invece, ha conoscenze e strumenti per fare meglio.
Serve rinnovare nel segno della tradizione dei principi del buon giornalismo: per questo motivo è comunque necessario l’aiuto di quanti hanno scritto la storia di questo mestiere.
2 – Giovani giornalisti, non schiavi
Tuttavia, e su questo punto bisogna essere intransigenti, serve ripensare profondamente i modelli di business.
Apriamo una discussione seria sulla sostenibilità economica del giornalismo online.
No, scrivere gratis non è un modello che può portare lontano: non esiste libertà d’informazione senza libertà dalla preoccupazione di arrivare a fine mese.
Finché il sistema manterrà, più o meno, e garantirà entrate a pochi probabilmente niente cambierà. Servirà un vero terremoto per rivoluzionare questi meccanismi degenerati.
Giovani sotto-pagati, quando pagati, sono la benzina per i motori di tanti giornali, più o meno grandi: ma la dignità rimane il presupposto in qualunque ambito.
Con quale faccia si può chiedere informazione di qualità a qualcuno che non sa neanche se avrà da mangiare per tutto il mese?
La visibilità non dà da mangiare e la “grande occasione” non deve arrivare a 40 anni.
3 – Credibilità: il fondamento di ogni modello di business
Gli stessi giornali devono riscoprire il valore della dignità professionale: il clickbaiting e le fake news mortificano la tradizione di uno dei cardini della democrazia.
D’altronde, l’unica via attraverso la quale il giornalismo può riconquistare il suo spazio sociale è quella della credibilità.
Ogni titolo allarmistico infondato, ogni notizia pubblicata senza verifica, ogni errore evitabile è un passo indietro lungo questa strada.
Internet è un posto spietato: lascia spazio solo a chi sa conquistare la fiducia del pubblico. Dovrebbe essere la lezione stampata in testa a tutti i direttori di giornale.
C’è spazio per chi è intellettualmente onesto e non lascia prevalere le logiche del business (a perdere) su quelle del lavoro fatto bene.
Probabilmente ci sarà meno spazio per testate iper-generaliste, che si occupano di tutto e tutti – a dire il vero, perdono un po’ di senso in un sistema interconnesso come il web.
Sarà importante, per chi arriverà e per chi vorrà reinventarsi, trovare dei focus sui quali insistere e all’interno dei quali proporsi come leader d’opinione.
La capacità di formare community affiatate, accomunate da interessi simili, è già ora fondamentale per creare business profittevoli.
In futuro questo trend continuerà: Internet diventerà sempre più il canale attraverso il quale passerà la vita di tutti.
Il giornalismo deve guardare a queste opportunità, trovare intersezioni con il marketing, per continuare a esistere.
Leggi anche: Stiamo sopravvalutando l’impatto delle fake news?
4 – I social media devono iniziare a pagare
All’ipotetico tavolo rotondo del giornalismo online dovranno sedere necessariamente anche i social media: sono diventati i veri editori di qualunque giornale nel mondo.
Senza Facebook e Google, che gestiscono la quasi totalità della pubblicità online, non esiste alcun progetto digitale.
Come propone il giornalista francese Sammy Katz, nel suo appello per salvare il giornalismo di qualità, Facebook e Google devono condividere i guadagni che realizzano grazie ai contenuti dei media tradizionali.
Le due aziende nel 2017 hanno fatturato 28 miliardi di dollari: davvero avrebbero problemi a pagare una “tassa” al mondo dell’informazione?
Certo, esistono altre soluzioni:
- paywall;
- format a pagamento;
- abbonamenti di vario tipo.
Come ha dimostrato Francesco Costa con il suo progetto “Da Costa a Costa” c’è spazio anche per queste iniziative.
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Nonostante tutto sarebbe illusorio considerare soluzioni del genere come la cura per tutti i mali: possono essere, al massimo, una boccata d’aria a un paziente sofferente.
5 – Formare i lettori (-produttori) 3.0
In conclusione, ma non per importanza, è decisivo educare i lettori: da soggetti passivi sono diventati loro stessi produttori di contenuti.
Ecco perché, in quanto tali, devono essere coscienti dei benefici e dei rischi di questo nuovo compito, al quale evidentemente tanti sono impreparati.
Non sarà facile, non sarà veloce, non sarà indolore: prima di tutto si dovranno formare gli insegnanti per dare forza a un progetto educativo digitale.
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L’alfabetizzazione informatica è necessaria quanto e più dell’alfabetizzazione italiana post-unitaria: un Paese ignorante le basilari regole della convivenza online, oggi, parte con un gap enorme rispetto al resto del mondo.
Siamo solo all’inizio della rivoluzione: ci attende un futuro ancora più sfidante, ancora più complesso – tra intelligenze artificiali e robot.
Sarebbe un errore gravissimo pensare di poterlo affrontare secondo gli schemi che ci hanno imposto in passato.
Chi vuole iniziare a ragionare seriamente su una rigenerazione delle democrazie occidentali liberali deve capire che la paura del futuro si vince con la forza delle idee e dei sogni realizzabili.
Dico “rigenerazione delle democrazie occidentali liberali” perché è palese che laddove si cerca d’imporre il modello putiniano uno dei primi obiettivi è proprio l’informazione indipendente.
Resistere, oggi, significa dare la possibilità di una svolta verso il Bello: raccontatelo, spiegatelo, mostratelo.