La crisi della filologia s’intreccia a quella del giornalismo, in un interessante articolo apparso ormai più di un anno fa dello studioso Claudio Lagomarsini, a cui abbiamo fatto qualche domanda. Un percorso con un punto d’intreccio fondamentale: la scuola.
Scrivi, giustamente, che «se manca una cultura dei testi, tutti i testi sono uguali». Come si stimola questa cultura nelle scuole, a partire dai livelli più bassi?
A livello dell’insegnamento di base credo che sarebbe sufficiente attirare l’attenzione dei bambini e dei ragazzi sul problema generale delle “fonti della conoscenza”: che cos’è una fonte, come se ne valuta la qualità e affidabilità, quali tipi di rapporti possono esistere tra una fonte e l’altra. Espresso in questi termini può sembrare un punto complesso.
In realtà, bambini e ragazzi si trovano molto presto ad affrontarlo, ad esempio quando preparano un elaborato (penso alla classica ricerca di geografia o storia, oppure alle varie forme di saggio che comportano una documentazione).
In tutti questi casi si pongono delle semplici e basilari domande di metodo: da dove sono state prese le informazioni riportate nell’elaborato? E la fonte che ci ha trasmesso quelle informazioni da dove le ha prese a sua volta? Perché Wikipedia è meno affidabile, in linea di massima, dell’Enciclopedia Treccani? Ci sono casi, invece, in cui Wikipedia può dirsi affidabile? Come si riconoscono questi casi?
Affrontare (con il linguaggio e i percorsi adeguati a ogni livello) questo tipo di domande sarebbe un modo per porre le basi di una «cultura dei testi».
Vivendo il mondo accademico, e quindi «vivendo» il mondo dei docenti quotidianamente, quali pensi siano le più grandi lacune che hanno, specialmente quelli più anziani, nel rapportarsi col mondo digitale?
Il cosiddetto mondo accademico è estremamente variegato e stratificato, anche all’interno di macro-aree come quella umanistica o quella delle scienze dure.
Anche solo un discorso anagrafico rischia di essere troppo approssimativo: un anziano docente di informatica ha un rapporto con il mondo digitale molto più naturale e approfondito rispetto alla media dei trentenni docenti di filologia. Se invece il “mondo digitale” si restringe ai social network, il discorso può essere diverso.
Tuttavia, confrontando il lavoro di un docente di materie letterarie che usa i social con quello di un docente che non li frequenta, non sarei in grado di indicare differenze sostanziali. Senz’altro si avverte, questo sì, un ritardo diffuso nelle competenze digitali.
E non parlo di chissà quali virtuosismi: basta farsi un giro in qualche convegno di ambito filologico-letterario (l’unico che frequento) per rendersi conto degli ostacoli che molti accademici incontrano nel confezionare o anche solo manovrare una semplice presentazione Power Point.
Infine, si pone il problema perenne del “come si formano i formatori”. Chi, ad oggi, entra a fare lezione in un’aula universitaria può contare quasi solo sulle competenze (informatiche, pedagogiche, comunicative) che si è fabbricato da sé, spesso per tentativi ed errori. Per precisare che non sono affatto estraneo al problema, posso testimoniare che nella mia università alcune aule possiedono una LIM (Lavagna Interattiva Multimediale); nel mio dipartimento devo ancora incontrare qualcuno che sappia non dico usarla, ma anche solo avviarla.
Per i software il discorso è lo stesso (molti docenti di ambito umanistico, anche relativamente giovani, usano i programmi di videoscrittura senza conoscere il 90% delle funzionalità che distinguono un Pc da una macchina da scrivere).
Ancora nel tuo articolo sul rapporto tra filologia e fake news scrivi: «Spesso ho difficoltà a seguire, anche solo nell’esoterismo del linguaggio, molti articoli di colleghi italiani che si occupano di poesia provenzale». Credo che l’uso smodato di una lingua fin troppo astratta, perfetta, aurea sia uno dei grandi mali del giornalismo italiano. Pensi che sia realistico auspicare una svolta verso lo “scrivere chiaro” (all’inglese, per intenderci) che parta dal mondo universitario per propagarsi poi, man mano, nella società?
Non vorrei deludere le aspettative tue o dei tuoi lettori, ma sono convinto che, da sempre, l’impatto potenziale del mondo universitario su quella che chiami “società” sia molto scarso.
Prima di tutto, quando parliamo di scrittura accademica, parliamo di articoli, recensioni, monografie relative a questioni molto specialistiche e scritte per specialisti, quindi estranee ai circuiti frequentati dalla maggioranza della popolazione. Inoltre, se io filologo (settore disciplinare L-FIL-LET/09) leggo un saggio accademico di meccanica del volo (ING-IND/03), la scrittura può essere anche cristallina, ma io mi sarò già perso alla seconda riga.
Mi riferivo, invece, a un altro paradosso: quello di una scrittura impenetrabile non per le masse ma per i tuoi stessi colleghi di settore disciplinare.
Per quanto riguarda i cambiamenti, intanto, ci sono resistenze molto forti all’interno dell’accademia stessa: chi non ha niente di brillante (o nuovo, o sensato) da dire ha tutto l’interesse a dirlo nel modo più oscuro ed esoterico possibile, per non rivelare il bluff. Lo scrivere difficile (parlo sempre dell’ambito umanistico) è considerato da alcuni l’unico modo legittimo per scrivere di cose difficili. Senza contare che scrivere difficile è, paradossalmente, la via più facile da seguire; rendere chiaro quel che è complesso richiede, invece, un lungo e faticoso lavoro di limatura.
Insomma, penso che no, non è realistico avere questo tipo di aspettative dal mondo universitario. Invece mi capita di leggere cose chiare e interessanti su alcuni giornali e riviste, che hanno molti più lettori dei saggi accademici: oltre a Internazionale, penso al Post, e poi a IL, Rivista Studio, Prisma (finché esisteva), Vice (quando non fanno gli scemi)…
Tornare a leggere i giornali, magari online, in classe potrebbe essere un modo per ricucire lo strappo tra nuove generazioni e lettura consapevole delle notizie. Quali sarebbe le altre cose che Claudio Lagomarsini farebbe?
Intanto, per quanto riguarda i giornali in classe, non sono sicuro che si sia davvero smesso di leggerli. In ogni caso, i giornali a stampa e online (parlo di testate come Repubblica, La Stampa, il Corriere etc.) dovrebbero contenere materiale accertato da personale specializzato. Non è sempre così, d’accordo, e in classe si potrebbe lavorare a qualche esercizio di fact checking.
Non so quanto sia diffusa, invece, un altro esercizio, cioè la lettura e l’analisi di notizie sospette che circolano sul web. Per venire quindi alle proposte, un esercizio stimolante sarebbe quello di dedicare uno spazio didattico all’esame di una di queste notizie.
Esempio: «L’Onu dichiara guerra al parmigiano. Nel mirino finiscono anche olio, prosciutto e pizza».
Notizia vera? Bufala? Da dove viene? Che basi ha? Per prima cosa leggiamo l’articolo in classe e assicuriamoci di capire che cosa sostiene; poi approfondiamo le questioni specifiche che solleva; in seguito andiamo a verificare le fonti: esiste un comunicato dell’Onu su parmigiano e pizza? Se esiste, lo traduciamo con il docente di inglese e lo confrontiamo con i contenuti dell’articolo. Infine, con il docente di scienze proviamo a capire quali sono le basi per dire che il parmigiano fa male.
Altre attività più mirate dovrebbero tener conto dell’indirizzo di studio: in un liceo classico mi sembrerebbe interessante che si ponesse (come qualche docente di certo pone) il problema dell’affidabilità dei testi letterari che leggiamo a scuola, quindi dell’«edizione critica». Che poi è uno stadio più raffinato e complesso del problema delle fonti evocato più sopra.
Mi rendo conto che sto descrivendo una scuola che non esiste (due o tre docenti in classe che analizzano insieme un testo, e studenti collaborativi, e magari un proiettore con un Pc funzionante e collegato a internet), ma provo a indicare una direzione ideale.
Back to reality: anche solo parlare per qualche minuto della notizia del parmigiano tossico ponendo il problema della sua affidabilità può essere un modo per sollecitare un’attitudine critica in un gruppo di adolescenti.
E, in conclusione, credi che nei già affollati programmi scolastici si possa davvero trovare spazio per un’operazione culturale del genere?
A me non sembra assurdo che due ore al mese siano prese in prestito (a turno) dalle ore di storia, italiano, geografia, inglese per essere dedicate a un esercizio come quello che ho immaginato qui sopra. Tra le tante, ricordo un’attività scolastica deplorevole che consisteva nella lettura ad alta voce del manuale di studio.
Intuisco le nobili intenzioni pedagogiche: leggiamo tutti insieme il testo di riferimento e affrontiamo in classe eventuali problemi che si incontreranno nello studio a casa. Ma sappiamo tutti che molto spesso non funzionava esattamente così e quell’ora di lettura ad alta voce si trasformava in una gara di aeroplanini.
Ecco, quel tipo di esercizio obsoleto potrebbe lasciare spazio, ogni tanto, ad attività complementari. Se poi non si vogliono o possono trovare spazi all’interno della normale programmazione, esistono (credo) altre possibilità: incontri pomeridiani, laboratori, lavori di gruppo da svolgere a casa e presentare in classe.
Per portare un esempio più concreto: nell’anno accademico che sta per iniziare, il dipartimento in cui lavoro attiverà una serie di laboratori e seminari sulle applicazioni della filologia a internet, che saranno inquadrati tra le attività dell’alternanza scuola-lavoro, quindi frequentati da studenti delle scuole superiori.