Ci sono cose che dobbiamo fare, per poter funzionare correttamente. Cose che ci sembrano necessarie alla nostra stessa sopravvivenza, e senza le quali ci sentimo monchi, orfani, persi.

Per qualcuno, si tratta di ballare.

Per qualcuno, si tratta di inseguire un pallone.

Per qualcun altro, si tratta di strimpellare una chitarra, o passare le dita su una tastiera di pianoforte.

Per qualcun altro ancora, poi, si tratta di scrivere.

C’è qualcosa, della passione, che non si può insegnare, che nasce dall’interno come una risposta, e la domanda è: chi sei?

Non si può insegnare ad essere. Però, questo sì, si può migliorare. Magari ascoltando le parole di chi, a questa domanda fondamentale, ha risposto prima di noi.

Ogni grande scrittore, una volta o l’altra, ha scritto sullo scrivere, qualche volta riflettendo, qualche altra consigliando. Questo perché l’animo umano non può fare a meno d’indagare quel centro di magia, di incredulità, che fonda le proprie passioni: come una religione.

E come una religione, anche la scrittura ha i suoi “comandamenti”: 11, secondo Henry Miller. Tra questi, Miller elenca: lavora ad un progetto per volta, finché non è stato portato a termine; lavora seguendo il programma, non l’umore: smetti all’orario stabilito; resta umano! Esci con le persone, vai a vedere posti nuovi, bevi se lo ritieni necessario; e, infine: non essere uno stakanovista: alla scrittura devi lavorare sempre con piacere!

Il piacere intrinseco alla scrittura è ciò che ci avvicina alla scrittura stessa, secondo David Foster Wallace, per cui la prima fase del diventare uno scrittore è simile alla masturbazione: “E’ divertente – scriveva Wallace in un piccolo saggio dal titolo La Natura del Divertimento – e inizialmente lo fai solo per te stesso: scrivi per scaricarti. E poi, se le cose vanno bene, se sei abbastanza fortunato da cominciare ad essere pagato, e vedi il tuo lavoro revisionato, rilegato, magari persino letto in metropolitana da una ragazza carina che nemmeno conosci… beh, allora tutto diventa ancora più divertente!”.

Per quanto tanti, quasi tutti tra coloro i quali si “scaricano” scrivendo, si dicono sicuri di farlo principalmente per una soddisfazione personale, arrivare ad essere pagati per saper mettere in fila le parole resta un riconoscimento importante, come ricorda Mark Twain quando consiglia all’aspirante scrittore di scrivere senza aspettarsi di essere remunerato, fino a che non sarà qualcun altro a proporglielo. E se non dovesse succedere entro, diciamo, tre anni? “Allora, probabilmente spaccare la legna è il vero lavoro che fa per te!”, scherza Twain.

Scrivere è divertimento, dunque, ma è anche lavoro estenuante, e spesso necessita di essere regolato da una routine. Isabel Allende è tra le scrittrici ad avere le abitudini di scrittura più rigide: “Comincio tutti i miei libri l’otto di gennaio – ha confessato in un’intervista contenuta in uno splendido volumetto titolato Why we write – Spesso, le prime settimane vanno completamente perse, eppure ogni mattina mi siedo davanti al computer e aspetto, come ad un appuntamento. E io mi presento sempre, e mi presento fino a quando non arriva anche la mia ispirazione. Ci mette un po’, si fa attendere, ma poi arriva”.

Dunque, perché scriviamo? È una domanda che si è posto anche Eric Blair, forse più noto al pubblico come George Orwell e, siccome gli scrittori non sono mai noti per la loro capacità di sintesi, sono ben quattro le risposte che si è dato: per mero egoismo, perché nonostante la maggior parte della gente scelga dopo una certa età di dedicare la propria vita ad altro rispetto a sé stesso, lo scrittore resta centrato sulla sua persona, sulla sua volontà di sembrare intelligente o di essere ricordato dopo la morte; per quello che Orwell definisce come “entusiasmo estetico”, e cioè il desiderio di riprodurre in parole la bellezza del mondo; per motivi storici, per riportare la verità dei fatti; oppure, infine, per impegno politico.

C’è anche un altro motivo, per cui uno dovrebbe mettersi a scrivere, secondo Jorge Luis Borges: per pigrizia! Racconta lo scrittore in un’intervista al giovane Fernando Sorrentino: “Il prodotto dello scrittore è il prodotto della pigrizia, vedi. Uno scrive per tenere la testa tra le nuvole, per posticipare il momento in cui dovrà avere a che fare con la realtà. Non è nemmeno necessario che scriva sul serio, quanto che inventi! Ma se poi si mette a scrivere davvero, uno troverà che non sta affatto lavorando, ma si sta intrattenendo… È una fortuna, scrivere”.

Ha un po’ a che vedere con la fortuna anche essere capaci di distinguere i giusti consigli, quando si tratta delle proprie passioni. Ne sa qualcuna Charlotte Bromte che, nel 1845, quando scrisse al poeta Robert Southey per avere un parere sulle sue capacità, si vide rispondere: “La letteratura non può essere affare di una donna, e non deve esserlo; attendi, verrà il momento in cui sarai chiamata alla tua vera vocazione, e allora vedrai che la celebrità sarà il minore dei tuoi interessi”. Charlotte ignorò il consiglio e, assieme alle sorelle Emily ed Anne, pubblicò un volume di poesie sotto pseudonimo maschile. L’anno successivo sarebbe uscito un libro, questa volta firmato, che avrebbe poi occupato i primi posti tra i romanzi più letti al mondo: Jane Eyre.

Marzia Figliolia

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