Mentre le luci dell’Unipol Arena sfumano e immagini di asteroidi e galassie lontane sfrecciano e si condensano su un megaschermo che così mega lo avevamo visto solo in Jurassic Park, i flash che cominciano inevitabilmente a partire in ogni punto dell’Arena fanno l’effetto di un immenso cielo nero puntinato di stelle che si accendono, si spengono, cadono. Viene quasi da esprimere un desiderio. Mr. Waters ha compiuto il miracolo supremo: contagiare di poesia una cosa odiosa come il telefonino che guizza davanti agli occhi ai concerti… E non ha nemmeno ancora cominciato!

Avremmo dovuto calarci gli acidi, per questo!”, sento dire a qualcuno qualche posto davanti a me mentre Roger attacca Welcome to the machine. Siamo più o meno a 45 minuti dall’inizio del concerto. I colori e le immagini che passano sul megaschermo sono indubbiamente allucinogeni. E la musica si sente forte. Ma non forte del tipo Dio mio, era meglio se mi portavo i tappi per le orecchie, no. È immersiva. Come se il concerto fosse nella cappella di una chiesa gotica, spoglia di tutto tranne che dell’eco del suono. E quindi no, non c’è bisogno di nessun tipo di droga: tutto ciò è già un’esperienza estraniante.

Per me è il primo concerto dell’ex Pink Floyd, ma è un fatto che il suo marchio di fabbrica sia sempre stata l’incredibile, immensa parte scenografica che accompagna la musica, così incredibile e così immensa anche stavolta da far andare in tilt ogni tentativo di riportarla su snapchat, instagram, facebook, quello che volete. Waters, a 73 anni suonati, è avanti, è oltre, è impostabile – in pieno spirito rock’n’roll.

Dopo il necessario intermezzo di venti minuti per lasciarci interiorizzare cosa fosse appena successo, è proprio quello spirito che lo porta a scherzare: “Non voglio fare politica stasera, sono così contento di essere qui”, secondi prima di attaccare con Animals. Il tema orwelliano dell’album sembra più che mai rilevante oggi, e così tutta una seconda parte che poteva sembrare un esercizio di nostalgia diventa un discorso sull’attualità politica, con immagini e citazioni del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump che scorrono ovunque sui megaschermi, le sue parole oscene o incredibili che si sovrappongono ai testi di Dogs e poi Pigs, mentre un enorme maialino gonfiabile circumnaviga l’arena.

C’è ancora Trump nell’intro di Money, la sua voce che ripete come un ridicolo mantra “I won” sul cling-cling delle monetine e su Waters che sorride serafico e la sua band che non sbaglia una nota. Ma c’è l’intero mondo della politica, anche, quella di cui Roger non voleva proprio parlare, quella da cui we need to resist e di cui non bisogna fidarsi – do we trust the government?, si legge scritto sul megaschermo. E poi, enorme, in maiuscolo, emerge la risposta: col cazzo.

Tanto è lirica la prima parte, tanto è dura e violenta la seconda; eppure, nonostante questo, nonostante la dicotomia all’interno dello stesso titolo del Tour, Us + Them non è un concerto che sottolinea la divisione, quanto la necessità di una ribellione comune. Ed è un messaggio che arriva forte e chiaro al pubblico, a tutti noi che ci siamo alzati – slanciati! – in un’ovazione che ha lasciato Waters visibilmente emozionato mentre ci dava l’arrivederci con Mother e Confortably Numb. Una redenzione.

Una redenzione dalla violenza del secondo tempo, che però non ne cancella la potenza, ma casomai la sottolinea. Perché quello di cui abbiamo veramente bisogno è la quiete dopo la tempesta, un’oasi nella quale riorganizzarci per resistere. E quello che Roger Waters ci lascia come insegnamento è che in un mondo reso sempre più inospitale e selvaggio dal potere, per resistere abbiamo bisogno di cantare più forte che mai.

Marzia Figliolia

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